A Oberhausen lo sguardo liminale di Josef Dabernig

Sperimentale e liminale è la ricerca dell’artista e regista austriaco Josef Dabernig. Nato nel 1956 a Kötschach-Mauthen, è un autore che gioca sui confini di tipo geografico— la sua città natale si trova al confine tra Austria, Slovenia e l’Italia — e/o linguistici, i suoi film sono opere di fiction che possono sembrare documentazioni di performance, visto che i protagonisti compiono azioni che non sono interpretate (come accade nei film di fiction) ma performate. Dabernig è attivo in ambito cinematografico fin dai primi anni ’90; i suoi film sono stati presentati ai festival di Locarno, Rotterdam, Toronto, Londra e Venezia. La sua formazione è artistica, ha studiato scultura a Vienna e a lui sono state dedicate mostre personali al MOCAK di Cracovia, al Mumok di Vienna e al CAC di Vilnius, per ricordarne solo alcune.

Gli elementi ricorrenti del suo cinema sono il calcio (e di conseguenza gli Stadi), le auto (le officine e le carrozzerie), il suono, sempre “materico e concreto”, l’assenza di dialoghi e i luoghi dismessi e/o abbandonati. Luoghi incontrati viaggiando, come accade in Hotel Roccalba (2008), film che si sviluppa all’interno di un territorio individuato durante un viaggio nelle Alpi italiane. Un edificio in disuso che è diventato la location del film, come mi ha raccontato Dabernig alla mostra organizzata a Oberhausen durante il festival che raccoglieva le fotografie delle location dei film, come strutture architettoniche, campi da calcio e dettagli iconografici. La mostra approfondiva ulteriormente il suo universo iconografico e sottolineava la volontà dell’artista di strutturare in modo concettuale la sua pratica cinematografica. Ma torniamo a Hotel Roccalba, un’eterotopia ubicata in un luogo non ben identificato. Potrebbe essere un centro di riposo o una casa in cui vivono 12 individui occupati in azioni quotidiane (due donne fanno la maglia, un uomo anziano taglia la legna, un altro si prepara a una gara ciclistica, una parrucchiera taglia i capelli, una barista legge un fotoromanzo) che non dialogano tra loro, implosi nel loro metafisico silenzio. Lo sviluppo narrativo è scandito da un’attenta composizione formale in cui tutte le scene sono girate seguendo uno schema predeterminato, formalismo che crea dei tableaux vivants dalle atmosfere enigmatiche e sospese.

Nel cortometraggio Wisla (1996) due uomini, uno di questi lo stesso Dabernig, dopo un lungo cammino si dirigono verso uno stadio. Nelle vesti di allenatori, fanno del loro meglio per istruire la squadra che sta giocando, presente solo con i rumori provenienti dal campo di calcio e mai inquadrata. Solo a fine partita, dopo le strette di mano tra gli allenatori e le autorità, viene mostrato lo stadio vuoto. Si tratta dello stadio Miejski che sarà totalmente rinnovato dopo la realizzazione di Wisla. In Automatic (2002) è il ritmo incalzante della colonna sonora, composta da Binder&Krieglstein, a unire le azioni compiute da tre diversi uomini all’interno delle loro automobili. È una sorta di road-movie statico che si compone di primissimi piani e dai dettagli dell’interno degli abitacoli. Le automobili non si muovono mai, nonostante si possa pensare che tutte le azioni siano preparatorie a un imminente partenza. Solo alla fine del film un campo lungo mostra il luogo in cui il film è stato girato: l’interno di un’officina, in cui la texture dei pneumatici diviene materia scultorea astratta su cui riordinare pensieri e azioni.

Con Lancia Thema (2005) Dabernig ci rende partecipi di un suo viaggio in Italia, solo al volante, lo accompagniamo nella ricerca delle migliori location per poter fotografare la Lancia Thema che sta guidando. In Puglia individua un muro con il disegno di una porta di un campo da calcio, poi si ferma nei pressi di un’autostrada, di uno stadio, in una continua documentazione del viaggio. Anche Wars è un film on the move, girato all’interno di un treno a lunga percorrenza in cui un cameriere, una cameriera e un cuoco attendono clienti che non arrivano mai. Poco importa. Loro continuano a svolgere i loro compiti in un luogo che li vede congelati nel tempo, interrotti solo dall’arrivo degli addetti alle pulizie che a loro volta ripetono in loop azioni non necessarie. Hypercrisis (2011) è una sorta di time machine. È girato in un hotel abbandonato, questa volta in Armenia, che ospita un solo scrittore, il moscovita Boris Martow, un talento della Perestroika afflitto da un blocco creativo. Lo stato di hypercrisis in cui si trova Martow corrisponde anche alle condizioni in cui si trova l’edificio, che in epoca sovietica accoglieva filmmaker in villeggiatura. Il film crea inoltre un legame dialettico tra l’interno e l’esterno dell’hotel, si muove tra diversi regimi, quello più statico e formale dell’interno, con il personale dell’hotel intento a perpetuare riti del passato (cenano ascoltando il Requiem di Verdi), e lo spazio esterno, dove un giardino incolto cerca di impadronirsi della decadente struttura architettonica, mentre il poeta, tra crisi di nervi e ricerca d’ispirazione, ascolta musica krautrock.

Con i suoi cortometraggi Dabernig compone un universo in cui azioni sistematiche, ripetute e minuziosamente progettate non conducono a nulla. Ed è questo nulla, questo vuoto, che l’artista enfatizza per caratterizzare il suo cinema, che riesce inoltre a trasformare nel suo opposto, in cui azioni minime assumono significati universali, come accade nel cinema di Buster Keaton e Jacques Tati.

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duels.it
giugno 13, 2016

Lorenza Pignatti
2016